Quale visione d’architettura per CITTÀ E TERRITORI?

In/arch Sicilia: Quale visione d’architettura per città e territori?

Relazione critica e propositiva di Antonietta Iolanda Lima

Tralascio di soffermarmi su occasioni d’architettura in Sicilia che ritengo mancate, dallo Zen al post-terremoto del Belice, e inizio con tre considerazioni:

– La prima: affermati come nuovi valori i disvalori in cui la maggioranza si riconosce, riassumibili, per me, nel seguente acronimo – PID, che sciolto conduce a: potere immagine denaro;

– la seconda : Pur non mancando luoghi dove si produce cultura, l’arte e con essa l’architettura ha oggi scarsa dignità in Italia e ancor più in Sicilia;

– la terza: L’architettura deve favorire l’interazione e la coesione sociale dando un contributo sostanziale che, per quanto non sempre palpabile né facilmente raggiungibile, è fondamento indispensabile per la fioritura dell’ambiente.

 

Sono consapevole del rischio implicito nel condensare tre temi così impegnativi in una sintesi più che frugale e tuttavia la ritengo necessaria per la sua capacità di densificare il senso di una sua compiuta argomentazione in una forma semplice e immediata.

 

Un commento brevissimo su queste tre affermazioni.

La prima, il Pid, restituisce un emergente grave in atto, accentuato nei paesi dove il denaro circola in abbondanza, presente in Italia soprattutto nel suo nord, meno nel mezzogiorno e ancor meno in Sicilia, forse più per l’impossibilità di quel largo consumo dal quale i politici fanno dipendere la crescita.

Ma in quale altro pianeta è fugata l’etica? si domandano alcuni; va abiurata rispondono in molti, è noiosa, come la morale, infastidisce le coscienze; aggiungo, nel caso in cui se ne sente ancora la voce. La seconda affermazione, amara come la prima, pone l’accento sul perché il nostro paese, tranne alcune virtuose eccezioni di cui qualcuna eccellente, non riesca globalmente ad assumere il ruolo di produttore di nuova cultura nello scenario non solo europeo

 

Do avvio quindi ad alcune considerazioni che ritengo connesse con tali asserzioni e con l’interrogativo posto dall’In/arch Sicilia come premessa al prossimo congresso nazionale.

 

Inizio dalla specializzazione. Sia pure necessaria, il suo eccesso, sempre più mancante di giudizio critico dentro e fuori l’Università e ancora imperante, ha diviso invece che unire, ha creato steccati, campi disciplinari non interagenti; ha impedito che si attivasse la capacità di saper guardare contemporaneamente a ciò che veramente significa l’intervento progettuale nei confronti del paesaggio che lo riceve; intendendo per paesaggio quello spazio, concettualmente polisemico, sfuggente a qualsiasi definizione, fatto di città, di territori, di storia, di cultura e di esseri umani che in esso vivono e agiscono. Sicché, a mio parere, quando si parla di ambiente si parla anche di paesaggio.

 

In tutt’uno con la settorializzazione, la specializzazione che, sin dall’insegnamento scolastico, ha formato permeando le coscienze, ha via via espunto, con l’avanzare unilaterale della tecnologia, la dimensione umanistica del vedere, del conoscere, del comprendere, dell’interpretare infine.

Nel rinunciare a un approccio olistico ai fenomeni, creando e alimentando la cesura dialettica tra umanesimo e scienza, è venuta meno la capacità di attivare quella ginnastica mentale, potenzialmente insita nel prodigio che struttura l’universo e anche le nostre menti, capace di guardare al micro e al macro, al locale e al globale – come è in uso dire da tempo riducendo questa importante polarità ad uno slogan, come tale svuotato di senso.

 

Quali le conseguenze di tutto questo? Di matrice positivista, ritenuta strumento necessario per risolvere i problemi di un mondo sempre più complesso e in accelerato cambiamento, la specializzazione ha determinato la frantumazione del sapere. Ha ricusato così il confronto con ciò che invece è irrorazione necessaria; nell’alimentare arricchisce, stimola a rivedere le proprie prospettive, a cambiare anche punti di vista.

Si è generata una gravissima perdita di cultura, perché rinuncia alla fertilizzazione feconda che nasce dal guardare oltre la propria disciplina, lasciandosi e lasciandola contaminare, laddove se ne riscontri la positività, da altre espressioni della creatività umana.

Né è conseguito un tale depauperamento culturale da incidere negativamente sulla capacità di visione e conseguentemente di azioni adeguate e benefiche per il paesaggio tutto, dal piccolo borgo alle città metropolitane, alle immense megalopoli e al pianeta intero già da decenni in stato di collasso, sempre più prossimo come si evince dallo scenario internazionale.

 

E in Sicilia? Quale visione di architettura, a fronte di un degrado quale questo dell’oggi che, come nei sud del mondo segnati generalmente da una crisi ancor più accentuata e a plurimi livelli, ha raggiunto un grado elevato di pervasività?

La crisi economica in atto investe tutti e tutto prepotentemente, a fronte di problemi irrisolti e sempre più gravi quali l’inquinamento ambientale, il traffico e la rete infrastrutturale, la mancanza di verde, l’incapacità di risolvere lo smaltimento dei rifiuti, il cattivo uso delle risorse, il problema drammatico delle migrazioni. Un degrado la cui massima manifestazione è nel come sciagurato con il quale si è gestista da decenni l’autonomia regionale, in tutt’uno con l’inerzia, l’indifferenza, la non partecipazione consapevole alla “cosa” pubblica dei cittadini congiunta all’offesa che quotidianamente, tranne una minoranza consapevole, è data allo spazio pubblico della città.

 

Palermo, nell’attuale 2018, è capitale della cultura. Al riguardo si registrano alcune azioni positive da parte di chi governa la città, anche se va rivelata la non avvenuta gestione partecipata, inizialmente promessa dall’attuale amministrazione comunale e chiesta dalla citata minoranza. Manca comunque il profondo, ciò che costituisce il presupposto indispensabile per una ricezione, da parte del tessuto umano che struttura globalmente la città, non passiva, non superficiale quand’anche questa avvenga, ma consapevole; critica quindi sul valore o dis-valore di tali azioni nel corpo strutturale e organico, non solo della città ma anche dell’ampio territorio, urbanizzato e non, che le appartiene, per il carattere metropolitano che concretamente dovrebbe connotarla in base alla legge regionale dell’agosto 2015.

Quale, infatti, il suo attuale scenario, o meglio quale cultura emana la sua realtà comunitaria e sociale? Radicale la mia risposta, avendola fondata da decenni sullo studio, sull’osservazione attenta e continua e sull’ascolto partecipe della città e dei suoi abitanti: tranne una minoranza che s’impegna, investendo al massimo e con continuità le proprie migliori energie per incidere positivamente sull’ambiente nella sua interezza e che lotta, con sofferenza anche nell’essere conscia della sua esiguità quantitativa, ciò che vedo lo ritengo prossimo all’incultura.

 

Guardando alle stelle e non ai propri piedi – come sollecita il gigante del pensiero appena scomparso Stephen Hawking, a un tema quale la questione ecologica, oggi più che mai trasversale nel mondo, città culturalmente consapevoli hanno sterzato l’azione verso nuovi e necessari percorsi mostrando di saper dare risposte adeguate; all’opposto, sembra non avere cittadinanza alcuna la riflessione e conseguentemente l’azione su tale problema in questa nostra Sicilia pur tuttavia ancora pregna di grandi potenzialità e di una storia che in alcune sue fasi l’ha vista assumere ruoli significativi nello scenario europeo. Siamo tutti coinvolti; e ancor più, insieme a chi ci governa, noi architetti urbanisti, senza iato alcuno tra gli uni e gli altri, essendo nel pensiero e nell’azione di entrambi implicite le due dimensioni.

 

E’ noto che l’Unesco nel 2004 ha introdotto il concetto di città creativa.

Con la positiva tempestività che lo caratterizza, Maurizio Carta ne ha fatto tema centrale di una ricerca e di un’operatività fattiva aperta al positivo confronto con lo scenario internazionale. Nell’aderirvi anch’io, alcune brevi considerazioni, riferite alla Sicilia e in particolare alla sua capitale, su quanto ne ritengo presupposto, fondamento e strumento: una semplice parola, cultura, indispensabile per attivare il percorso di rigenerazione richiesta dalle città per avviare il processo che dovrebbe condurle a ‘divenire creative’.

Senza una cultura che, se non tutti, investa almeno una collettività quantitativamente maggiore di una ristretta minoranza, quali le strategie da porre in atto?

 

Rispondo con tre suggerimenti a mio parere prioritari al fine di attivare interventi che ritengo non più procrastinabili.

 

Il primo chiama in causa gli intellettuali.

Ritengo infatti che, nella attuale condizione, ed anche a fronte della complessità che oggi è implicita nel fare progetti responsabili, quelli che in piena coscienza non solo si affermano come tali ma dimostrano con il loro agire di esserlo veramente, devono scendere in campo uniti da un obbiettivo comune: agire per contribuire a restituire qualità all’ambiente e al paesaggio. Ed essendo la qualità un bene desiderato ritengo da tutti e strettamente dipendente dal come si agisce, non solo gli architetti – progettisti e storici-critici e quant’altro -, ma gli antropologi, i geografi, gli ingegneri, gli economisti, i filosofi, i promotori di nuove competenze funzionali alla attuale trasformazione del lavoro, e quindi tecnologi, esperti digitali quanto mai necessari in un oggi sempre più vertebrato dalla cibernetica, ma anche i climatologi, gli scienziati, i letterati, gli scrittori, gli artisti, gli insegnanti sin da quelli connessi alla fase iniziale dell’apprendimento.

 

Il secondo rivendica lo scardinamento dell’autorialità in architettura.

Richiesta dalla grande complessità del mondo attuale, l’azione degli intellettuali ‘veri’ deve essere una azione militante e propulsiva, pari a quella che, colma di tensione visionaria, caratterizzò la prima stagione del dopoguerra; un’azione ininterrotta fondata su un programma profondamente meditato, fecondato dall’incrocio e dallo scambio propositivo di tutte le competenze in gioco, traducendosi, questo, in una alleanza. Non più quindi autorialità in architettura ma progettazione collettiva condivisa, capace di avvalersi anche dei nuovi strumenti offerti dalla rete che facilitano, purché l’approccio sia responsabile, la messa in atto di una partecipazione necessaria e consapevole dei diversi operatori nel farsi del progetto, dalla genesi alla sua concretizzazione.

 

Il terzo: Da quanto sin qui argomentato, proposte operative da attivare subito innervate da un duplice obiettivo:

– contribuire attraverso partecipazione e comunicazione a ridurre quella che io chiamo l’analfabetizzazione delle masse, ivi compresa la non conoscenza dell’architettura e quindi il suo ruolo nella costruzione dell’ambiente,- lavoro dentro le scuole e coinvolgimento dei cittadini -;

– abiurare allo iato tra intervento e richiesta ecologica.

 

Con fondamento in tali obiettivi, propongo un progetto puntuale per Palermo, da estendere, se si condivide, anche alle altre città metropolitane dell’isola.

Due i temi in cui si articola: traffico e inquinamento, entrambi connessi.

 

Due gli antidoti da porre subito in atto sollecitando il coinvolgimento di chi governa la città, i territori e gli urbani a essa connessi:

– l’incentivazione del trasporto pubblico, la piantumazione di alberature lungo tutti i viali (si fece nell’Ottocento), la creazione diffusa di polmoni di verde grandi e piccoli; la valorizzazione di tutte le piazze della città con l’espulsione definitiva in esse dei veicoli automobilistici;

– riconversione ecologica degli edifici condominiali. Favorita da opportuni protocolli tra Comune e privati, creerebbe nuovo lavoro riducendo l’elevatissimo tasso di disoccupazione e d’inquinamento in atto.

 

Un secondo progetto dovrebbe concentrarsi sulla rigenerazione di tre o quattro insediamenti di piccole dimensioni, da porre in connessione – utilizzando il web – con la città metropolitana nella quale rientrano.

Ricchi di storia e di potenzialità ignorate, molti in fase crescente di spopolamento e persino di abbandono, essi vanno studiati a fondo, attivando al massimo la sapienza di cui si è ancora, benché raramente, capaci, permeata dall’ascolto e dal Saper vedere. Se ne scopriranno la genesi e le dinamiche entro il percorso della storia sino alla loro attuale realtà, dando luce non solo ad un visibile ormai reso inerte ma ancora rivitalizzabile, ma anche ad un invisibile carico di feconde possibilità.

 

Si darà così luogo a un’azione progettuale collettiva, condivisa, responsabile perché finalizzata a promuovere la trasformazione di tali insediamenti in micro-poli pulsanti, ecologici e creativi connessi vitalmente all’ampio sistema territoriale di cui fanno parte. Attuandosi, tale programma entro un arco temporale di un triennio al massimo, ritengo che questi piccoli urbani, che al pari di altri costituiscono il tessuto strutturale della Sicilia, potrebbero essere in grado di “intercettare le energie di flussi, di persone e di capitali che, come scrive Maurizio, attraversano il pianeta”.

 

Inverando la ricchezza di senso data da Zevi all’Istituto Nazionale di Architettura istituendolo nell’ormai lontano 1959, l’In/arch Sicilia potrebbe essere, per questi suggerimenti-proposte, l’istituzione aggregante, congiuntamente alla scuola – dalle elementari all’università; entrambi, In/arch e Scuola pronte a mettersi in discussione, riorientandosi in un nuovo percorso. Una scommessa per il presente e anche per il futuro.

Antonietta Iolanda Lima, Palermo 16 marzo 2018